Articoli di Giovanni Papini

1957


in "Gli inediti di Papini - Tre ricordi":
Pablo Picasso
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXXII, fasc. 250, p. 3
Data: 20 ottobre 1957


pag. 3




   Prima ch'io partissi da Parigi, nell'inverno del 1907, Soffici volle farmi conoscere un giovane pittore spagnolo del quale egli aveva grande stima.
   Pablo Picasso abitava allora in una straduccia desolata del vecchio Montmartre, e il suo studio era in una specie di sotterraneo, che aveva luce da una parte sola, dall'alto, come si vede in certi quadri di Rembrandt. Il pittore aveva la mia età — siamo nati tutt'e due nel 1881 — e m'ispirò subito simpatia. Era di statura mediocre ma tarchiato, saldo e sano, con un viso bruno e aperto, dove mi parve di riconoscere quella volontà che moltiplica il genio.
   In quello stanzone non era solo. V'era anche una ragazza dall'aria di zingara, con un mazzo di seta a lutto per capelli e due diamanti neri per occhi. Si aggirava qua e là per studio, appena coperta da un giubbino bianco sbottonato e da una corta gonnella rossa. Non diceva una parola e Picasso non la presentò.
   Era nella cosiddetta «période bleue» e le pareti e i cavalletti erano pieni di arlecchini un po' spettrali, in atteggiamenti quasi medianici, solitari per lo più o accompagnati da incantate figure tra il fantasma e la maschera, e tutti dipinti in toni azzurrastri e bluastri. A me piacquero moltissimo e capii che se avessi potuto spendere cento franchi avrei potuto portar via una di quelle tele, ora famose. Ma non l'avevo e quando, nel 1914, tornai da Picasso e avrei potuto spendere, con sacrificio, qualche centinaio di franchi, i suoi quadri costavano già molte migliaia.
   A quel tempo Picasso era molto povero ma era giustamente orgoglioso e non si piegava, neppure sotto la spinta della fame, a dipingere secondo il gusto degli amatori, che s'erano fermati, allora, e solo i più arditi, agli impressionisti.
   In mezzo allo studio c'era una tavola e in mezzo alla tavola un piatto di maiolica e in mezzo al piatto due belle arance.
   — E' la nostra colazione — disse Picasso — ma non mi decido a mangiarle parche hanno un bellissimo colore e perchè mi ricordano il mio paese.
   Picasso, infatti, era nato a Malaga, e il suo vero cognome è Ruiz. Picasso è il cognome della madre, ch'era genovese, e forse discendeva da quel Picasso che fu pittore a Genova nell'Ottocento. Penso che il suo genio pittorico gli viene, almeno in parte, dal sangue italiano.
   Per quella volta non rividi più Picasso, ma nel 1914, tornato a Parigi con l'amico Soffici, lo incontrai più volte. S'andò anche a casa sua. Stava allora in un quartiere quasi borghese, con stanze semplicemente ma gustosamente arredate, dove vidi — oltre le sue opere del periodo cubista — le più belle sculture negre e le più belle pitture del douanier Rousseau. Di questo umile artista, che dopo morto stava diventando famoso, m'è rimasta impressa una tela che rappresentava una strada di Parigi, il 14 luglio, festa nazionale. A tutte le finestre pendevano bandiere di tutti i paesi e di tutti i colori, amorosamente e vivamente dipinte, e la strada era affollata di gente che danzava intorno ad alberi ornati di pennoni e di orifiamme multicolori. Un'orgia di tinte vive e fresche sullo sfondo nerastro dei caseggiati, uno scenario di sagra popolare, dove l'amoroso e minuzioso realismo si allea magicamente con gli sfoggi di un'ingenua fantasia.
   Insieme a Picasso trovai il pittore Juan Gris e l'amico Guillaume Apollinaire, ch'era allora il teorico e il profeta del Cubismo.
   Non c'era più la zingara nera, bianca e rossa che avevo visto nel 1907 ma c'era un'altra giovane e bella donna, la famosa Fernanda, tutt'altro che taciturna, quella stessa che poi ha scritto un libro sulla vita del pittore.
   Picasso, allora, era al principio della sua fortuna e della sua fama: i suoi quadri erano braccati da mercanti e da collezionisti; le riviste d'arte di tutto il mondo discutevano l'arte sua. Ma egli era rimasto lo stesso ragazzo semplice e cordiale che avevo conosciuto anni prima e pensai che ciò era la più persuasiva conferma della genuinità del suo talento.
   Alcuni anni dopo, nel 1918, ritrovai Picasso a Roma. Era venuto con la troupe dei ballerini russi del famoso Diaghileff, che, nonostante la guerra, trionfava al Teatro Costanzi. Conobbi allora, per la prima volta, Strawinski e Jean Cocteau.
   Picasso era felice di essere a Roma, dove non c'era l'oscuramento come a Parigi, e spesso lo ritrovavo in un sottosuolo di Piazza Venezia dove ogni mattina le ballerine russe vestite verginalmente di bianco facevano i loro esercizi. Mi venne la voglia di fare un grande articolo sopra di lui e un giorno andai all'Hótel de Russia, dove abitava, e lì Picasso mi raccontò per filo e per segno tutta la sua vita. Io presi molti appunti in un libriccino che poi andò perso. Ma ricordo il suo linguaggio plastico e spesso timoresco: una lingua stia, a base di francese, con toppe di castigliano e di italiano, lingua nostra, fraterna, tutta mediterranea.
   Non ebbi mai con Picasso vera e continuata amicizia ma per il fatto d'esser nati lo stesso anno — la data di nascita, fu detto, è una seconda patria — mi son sentito sempre un po' concittadino di questo singolare artista dato alla luce, in terra di Spagna, da madre italiana.


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